Il 2017 è l’anno in cui Moak festeggia 50 anni di attività e per celebrarli insieme ai nostri lettori, abbiamo voluto raccontare la nostra storia attraverso lo sguardo e l’anima dei suoi protagonisti, scovando aned- doti e testimonianze di chi questa storia l’ha vissuta e continua a viverla.
Nel numero precedente vi abbiamo raccontato come è nata la passione di Giovanni Spadola per il caffè. Siamo alla fine degli anni ’70 e nel decennio successivo, grazie all’ennesima intuizione del suo fondatore, Moak continua la sua ascesa.
Gli anni del – 1977-1987
“Nel business come nella vita il rischio è un elemento essenziale. Chi non assume rischi non può avere successo”. Richard Branson
Esattamente dieci anni dopo aver fondato Moak, Giovanni Spadola si convinceva sempre di più che per avere successo bisognava anche rischiare. Era il 1976 e in Brasile, uno dei maggiori produttori di caffè al mondo, una grossa gelata causò una grandissima perdita di produzione di caffè crudi e di conseguenza l’aumento vertiginoso del prezzo.
“Pensai – racconta – che quella era un’occasione, forse folle, ma che poi risultò vincente. Acquistai una quantità tale che, se avessi dovuto venderlo tostato, per la produzione di allora sarebbe bastato per almeno quattro anni. Immagazzinai il prodotto in un momento di crisi, grazie anche alla fiducia che mi diedero le banche e cominciai a vendere il caffè crudo ad altri torrefattori e importatori”.
Da quell’operazione ne ricavò grandi guadagni che investì subito in nuovi macchinari e in una nuova sede. Era arrivato il momento di spostarsi dal vicolo di Modica Alta. Per quanto il legame con quelle viuzze frastagliate e con la casa in cui era nato e cresciuto fosse forte, era necessario ampliare i locali e renderli facilmente raggiungibili. Scelse Modica Sorda, la parte nuova della città, oggi quartiere residenziale a due passi dal polo commerciale. Ancora oggi da quelle parti si rimpiange il profumo di caffè tostato che dava il buongiorno ai suoi abitanti. Nel 1979 uffici, produzione e magazzino erano pronti per ospitare in 500 mq la nuova Moak. Nel nuovo ufficio di papà, Alessandro – che all’epoca aveva poco più di 11 anni – cominciò ad assaporare l’azienda non più con gli occhi da bambino, ma da aspirante imprenditore.
“Tutti i pomeriggi – racconta Giovanni – veniva con me a lavoro e seduto alla mia scrivania faceva i compiti. In torrefazione, mi diceva, riusciva a studiare e a concentrarsi. Oltre alla gioia di averlo accanto, vedevo nel suo sguardo il futuro di Moak. Finiti i compiti, scendeva in produzione affascinato dalle onde circolari che i chicchi ricreavano muovendosi lenta- mente nella tostatrice, portandosi addosso a casa il profumo impregnante di caffè”.
A metà degli anni ’80, grazie anche all’assunzione di nuovi collaboratori, Giovanni potè permettersi di allontanarsi per qualche settimana e raggiungere i Paesi produttori per vedere con i suoi occhi e toccare con mano le rigogliose ciliegie da cui estrarre i migliori chicchi di caffè.
“Il mio primo viaggio nelle piantagioni – ci dice nostalgico – fu a San Paolo in Brasile. Se non ricordo male, era il 1985. Ricordo invece bene che per raggiungere la fazenda impiegammo quattro ore di pullman, più un bel tratto a piedi di strada sterrata. Ancora più indelebile nella mia memoria è lo stupore che ebbi nelle favelas alla vista di quelle piante, inebriato dai profumi di caffè misto ad agrumi, spezie e cioccolato. Purtroppo, in questi luoghi, come in altri paesi produttori che ho visitato, ci si scontra con un’altra realtà, quella politica e sociale. Il Brasile era appena uscito dal secolare regime di dittatura e in quegli anni le discriminazioni sociali erano ancora molto forti. Di quel viaggio mi porto anche il ricordo di un brutto episodio: una sera fui invitato ad un congresso internazionale sul caffè. Nell’albergo dove alloggiavamo verso mezzanotte un commando di circa trenta uomini armati fece irruzione, tenendo in ostaggio il personale e alcuni ospiti Io e mia moglie a quell’ora eravamo in camera. Fummo tutti derubati, ma per fortuna, il loro intento era solo quello di svaligiare le casseforti. Dopo quel viaggio, ne seguirono altri negli anni successivi, di cui ancora custodisco ricordi e forti emozioni.”